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lunedì 15 luglio 2019

Avevo pregiudizi su Medjugorje e poi ci sono andato di persona- Intervista ad Alessandro Fo

Di Giorgio De Simone

Ho incontrato Alessandro Fo a Grado, in occasione di una serata letteraria, quando freschissime erano in lui le impressioni di un viaggio appena compiuto a Medjugorje. Riferite nella conversazione a me e a un gruppo di amici, mi sono chiesto se queste impressioni non potessero avere, come meritavano, un pubblico più vasto. Ma se la sarebbe sentita Fo di portare a conoscenza di tanti lettori un’esperienza che, dopotutto, rimaneva un fatto personale? Non restava che domandarglielo. La risposta è stata: «È vero, si tratta di accadimenti che riguardano una sfera privata, ma ritengo che non sia del tutto giusto, da parte di chi è stato lì e vi ha provato sensazioni profonde, rifiutarsi di parteciparle». Quanto segue è la raccolta di questa «partecipazione».

Può dire come mai è andato a Medjugorje? E, una volta là, come e da quando si è sentito coinvolto?
«La prima volta che sentii parlare di Medjugorje e delle apparizioni mariane, fra me e me compiansi per la sua ingenuità l’amico che ne riferiva. Non ero credente e mi disinteressai di quello che supponevo un caso da liquidare insieme a varie frottole di tipo parapsicologico e di basso profilo. Molti anni dopo, dolorose vicende private mi avevano riavvicinato alla religione, ma mi ci ero più che altro "gettato dentro" in blocco per trovarvi un rifugio, e ancora con molte perplessità. Una persona cara mi chiese di registrarle un’intervista che una "veggente" di Medjugorje, Marija Pavlovic, rilasciava, se non erro il 7 aprile 1998, a Radio Maria (presso cui penso si possa acquistare il nastro; è edita in trascrizione dalla Shalom). Per curiosità, ma con molta sufficienza, volli poi ascoltarla anch’io. La giovane narrava cose abbastanza incredibili, tanto più per chi fosse arroccato nelle proprie riserve razionalistiche. Eppure nella sua voce si coglieva "una luce": parlava con una autenticità così imperturbabile, profonda, serenamente perentoria, che mi convinsi che non potesse mentire. Ho accostato dunque Medjugorje con un solido e anche un po’ irridente scetticismo, una formazione scientifica improntata al rigore filologico, tradizioni familiari e frequentazioni schierate per lo più sul fronte di uno smaliziato disincanto. Ma, caduto il pregiudizio che mi impediva una metodica raccolta dei dati da sottoporre poi a un esame, le testimonianze non mi hanno lasciato più spazio alla contestazione. È avvenuto per caso e con naturalezza, e mi sono trovato ad adeguarmi docilmente alle conclusioni che quei fatti implicavano. Solo la scorsa estate, e in realtà senza aspettarmi nulla di particolare, sono andato di persona a Medjugorje e ne sono stato subito preso. È difficile riassumere in breve il perché. Mi limito a dire che laggiù si svolge un tipo di vita molto diverso rispetto a quello cui siamo abituati qui. Tutto ruota con intensa semplicità attorno a un criterio di religiosità. Ritornarne è stato per me quasi sperimentare una sorta di sradicamento e di regressione a un mondo di maggiore dispersione». Per questa sua esperienza, lei potrebbe parlare di «conversione»?
«Pur con tutti i limiti delle persistenti debolezze personali, direi di sì. L’intervista a Marija mi ha scosso, e spinto a dedicare più tempo al divino. Ma mi costava ancora fatica, e specialmente la preghiera richiedeva un notevole sforzo di volontà. L’urgenza delle mie cose era prevaricante, e Dio restava più che altro una sponda cui ricorrere nel bisogno. Quei tre giorni a Medjugorje mi hanno donato una nuova, quieta sicurezza, e un’interiorità differente. Sono io il primo a stupirmi (e a chiedermi se e quanto potrà durare) di un’inversione delle priorità. Il bisogno principale sembra divenuto quello di sintonizzarsi sul divino. E, soprattutto, questo mi viene naturale, senza più forzature. Ne avverto la necessità, come di bere e mangiare. L’avevo sentito dire spesso, da e di molte persone; ma sperimentarlo è un’altra cosa. A Medjugorje si sono avute guarigioni inspiegabili; molti altri pellegrini hanno vissuto esperienze particolari: ve ne sono moltissime testimonianze. Ma anche al di là di questo, direi che a Medjugorje è netta la sensazione di trovarsi in un luogo "pieno di Grazia". Si potrà dire: è tutta autosuggestione, durerà poco. Questo non cambia, né per me sminuisce, l’impressione che "qualcosa" mi abbia soffiato via la polvere da dentro». Che cosa si può dire, da parte di un poeta che è anche un cattedratico e un uomo di cultura, a chi nel suo mondo non crede o non vuole credere?
«Per secoli ci si è chiesti se si potesse dimostrare il divino. Dal mio punto di vista, Medjugorje è appunto una prova dell’esistenza di Dio, e della veridicità del cristianesimo. Non vedo alternative: o è tutto un falso, una truffa (ma, fra l’altro, a che scopo?); oppure Medjugorje impegna a conseguenze che portano inevitabilmente nella direzione del Dio cristiano. Da quando il mio scetticismo è inciampato nei fatti di Medjugorje, il problema di Dio mi si è come rovesciato e l’onere della prova ricade per me ora su chi si senta capace di revocarli in dubbio. Normalmente, chi non crede si sente al sicuro, non rischia imputazioni di squilibrio e fanatismo; né perde tempo con faccende come le apparizioni mariane, relegate nell’ambito di una devozione spicciola, buona ad accontentare i creduloni. In questa situazione, una testimonianza controcorrente rischia un’accoglienza diffidente e imbarazzata. Forse sarebbe più efficace una provocazione: solo chi giunga a smontare Medjugorje come una mistificazione può riproporre credibilmente materialismo, ateismo e così via. L’impresa non è ancora riuscita. Si tratta delle apparizioni più studiate di sempre, e con fior di strumentazione scientifica: la loro attendibilità non ne è uscita scalfita, anzi se mai rafforzata, perché anche gli sperimentatori più scettici hanno dovuto arrendersi di fronte all’impossibilità di ridurre il fenomeno a forme di allucinazione o di patologia (se ne trova documentazione, con tutto l’essenziale su Medjugorje, nell’assai utile libro di Riccardo Caniato e Vincenzo Sansonetti Maria, alba del terzo millennio, edito da Ares). Raccogliere questa sfida costringerebbe a informarsi sui fatti, che parlano da sé, con ben altra eloquenza». Come «lavora» adesso la Vergine nella sua vita? E come potrebbe lavorare, a suo parere, su più vasta scala? La persistente raccomandazione della Madonna di pregare, sempre pregare e digiunare, la trova d’accordo?
«Se qualcuno credesse – come personalmente credo – che la Madonna esiste, appare da 23 anni ai sei ragazzi di Medjugorje e chiede di praticare la preghiera e il sacrificio di qualche digiuno a pane e acqua, ebbene, questa persona, chi mai dovrebbe ritenere di essere, per non "trovarsi d’accordo" con lei? Così la Madonna "lavora" nella mia vita come in quella di milioni di persone che a lei si affidano. Impegna a un’apertura al divino e a un’autocostruzione spirituale facili da affrontare e remunerate con una pace interiore che aiuta a affrontare sia le piccole cose quotidiane sia prove più ardue. Le sue raccomandazioni a Medjugorje mi hanno portato a credere che, a parte altre buone opere, davvero preghiera e digiuno possano contribuire a inclinare verso il piatto del bene la bilancia del mondo. L’economia divina è quaggiù impossibile da comprendere fino in fondo nei particolari: neppure attraverso questa "bolla" di eterno nel tempo, questo dialogo fra grandezze assolutamente incommensurabili fra loro, che pure si articola in un linguaggio a noi comprensibile, tramite immagini e simboli che ci siano semplici e praticabili. Ed è giusto così, se no saremmo divini, e non umani. È già molto che ci siano stati dati dei punti di riferimento. L’ultimo dei quali sono, per me, questi oltre 23 anni di apparizioni quotidiane e raccomandazioni specifiche: "l’avvenimento del secolo", secondo il titolo del recente libro di Padre Livio Fanzaga edito da Sugarco. Eppure, come ci ha rimproverato altrove la Madonna stessa, "voi non ci fate caso". Lavorare su più vasta scala spetterebbe ora a noi uomini, non al divino». Lei parlava delle sue tradizioni familiari schierate su uno «smaliziato disincanto» che presumibilmente, e se non entriamo troppo sul terreno personale, rimane ed è vigoroso. Può dirci qualcosa in merito?
«Immagino che la domanda miri soprattutto a cogliere un’eventuale distanza fra le dichiarazioni cui mi avete invitato e le posizioni prevedibili per i miei zii Franca Rame e Dario Fo. Se è così devo però deludere l’eventuale curiosità, perché, a parte quello che sarebbe qui un doveroso riserbo sulle opinioni altrui, non abbiamo mai avuto modo di discutere di questi temi. Ricorderei tutt’al più un particolare di quella stessa famosa trasmissione televisiva durante la quale Dario apprese di aver vinto il Nobel: pur dal suo punto di vista sostanzialmente laico, a domande piuttosto dirette rispose con alcune considerazioni che mi colpirono, anche per la loro levatura poetica, su come tutto sia "così pieno di divino"». Cultura contemporanea e religione. In che rapporto le vede e, più ancora, le sente? Di questa sua rinnovata visione della vita ha intenzione di parlare al mondo accademico, ai colleghi, ma soprattutto ai suoi studenti?
«Non ho alcuna autorità per parlare di nulla a nessuno in materia di fede; e sono poi argomenti che nel mio ambito, per come la vedo io, si dovrebbe cercare di non svilire facendone oggetto di conferenza o di una propaganda fuori luogo. Diverso è il caso di studenti e colleghi che siano innanzitutto amici, ma allora si rientra nell’ambito del privato. Quanto all’altra questione, è troppo complessa per liquidarla in due parole. Mi limito a azzardare qualche impressione estemporanea. Religione e religiosità mi sembrano oggi piuttosto sottovalutate quanto al loro potenziale positivo, e guardate con diffidenza da una cultura contemporanea (se si può impiegare per brevità questo generico concetto di comodo) la cui inclinazione laica ha spesso aspirato a disinnescare in partenza potenziali derive fanatiche e fondamentaliste. Ma, a certi livelli di elaborazione o di autenticità nel rapportarsi alla vita, anche la più laica delle culture può entrare in convergenza con certi aspetti della religione. Così, quella stessa cultura nel cui ambito mi trovo a lavorare può non essere confessionale nella forma – e direi anzi che certe sue articolazioni dovrebbero evitare programmaticamente di essere tali –, ma risultare almeno in parte religiosa nella sostanza». 


Fonte:http://medjugorje.altervista.org/doc/testimonianze//019-nipotedariofo.php

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