domenica 14 novembre 2021

«Non possiamo limitarci a sperare, dobbiamo organizzare la speranza»: Omelia 5° GIORNATA MONDIALE DEI POVERI


 14 novembre 2021

GIORNATA MONDIALE DEI POVERI
OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO


Le immagini usate da Gesù, nella prima parte del Vangelo odierno, lasciano sgomenti: il sole che si oscura, la luna che non dà più luce, le stelle che cadono e le potenze dei cieli sconvolte. Poco dopo, però, il Signore ci apre alla speranza: proprio in quel momento di oscurità totale, il Figlio dell’Uomo verrà; e nel presente si possono già contemplare i segni della sua venuta, come quando si vede un albero di fico che inizia a mettere le foglie perché l’estate è vicina.

Questo Vangelo ci aiuta così a leggere la storia cogliendone due aspetti: i dolori di oggi e la speranza di domani. Da una parte, sono evocate tutte le dolorose contraddizioni in cui la realtà umana rimane immersa in ogni tempo; dall’altra parte, c’è il futuro di salvezza che la attende, cioè l’incontro con il Signore che viene, per liberarci da ogni male. Guardiamo a questi due aspetti con lo sguardo di Gesù.

Il primo aspetto: il dolore di oggi. Siamo dentro a una storia segnata da tribolazioni, violenze, sofferenze e ingiustizie, in attesa di una liberazione che sembra non arrivare mai. Soprattutto, a esserne feriti, oppressi e talvolta schiacciati sono i poveri, gli anelli più fragili della catena. La Giornata Mondiale dei Poveri, che stiamo celebrando, ci chiede di non voltarci dall’altra parte, di non aver paura a guardare da vicino la sofferenza dei più deboli, per i quali il Vangelo di oggi è molto attuale: il sole della loro vita è spesso oscurato dalla solitudine, la luna delle loro attese è spenta; le stelle dei loro sogni sono cadute nella rassegnazione ed è la loro stessa esistenza a essere sconvolta. Tutto ciò a causa della povertà a cui spesso sono costretti, vittime dell’ingiustizia e della disuguaglianza di una società dello scarto, che corre veloce senza vederli e li abbandona senza scrupoli al loro destino.

Dall’altra parte, però, c’è il secondo aspetto: la speranza di domani. Gesù vuole aprirci alla speranza, strapparci dall’angoscia e dalla paura dinanzi al dolore del mondo. Per questo afferma che, proprio mentre il sole si oscura e tutto sembra precipitare, Egli si fa vicino. Nel gemito della nostra storia dolorosa, c’è un futuro di salvezza che inizia a germogliare. La speranza di domani fiorisce nel dolore di oggi. Sì, la salvezza di Dio non è solo una promessa dell’aldilà, ma cresce già ora dentro la nostra storia ferita – abbiamo il cuore ammalato, tutti –, si fa strada tra le oppressioni e le ingiustizie del mondo. Proprio in mezzo al pianto dei poveri, il Regno di Dio sboccia come le tenere foglie di un albero e conduce la storia alla meta, all’incontro finale con il Signore, il Re dell’Universo che ci libererà in modo definitivo.

Chiediamoci a questo punto: che cosa è richiesto a noi cristiani davanti a questa realtà? Ci è richiesto di nutrire la speranza di domani risanando il dolore di oggi. Sono collegati: se tu non vai avanti risanando i dolori di oggi, difficilmente avrai la speranza di domani. La speranza che nasce dal Vangelo, infatti, non consiste nell’aspettare passivamente che un domani le cose vadano meglio, questo non è possibile, ma nel rendere oggi concreta la promessa di salvezza di Dio. Oggi, ogni giorno. La speranza cristiana non è infatti l’ottimismo beato, anzi, direi l’ottimismo adolescente, di chi spera che le cose cambino e nel frattempo continua a farsi la sua vita, ma è costruire ogni giorno, con gesti concreti, il Regno dell’amore, della giustizia e della fraternità che Gesù ha inaugurato. La speranza cristiana, per esempio, non è stata seminata dal levita e dal sacerdote che sono passati davanti a quell’uomo ferito dai ladri. È stata seminata da un estraneo, da un samaritano che si è fermato e ha fatto il gesto (cfr Lc 10,30-35). E oggi è come se la Chiesa ci dicesse: “Fermati e semina speranza nella povertà. Avvicinati ai poveri e semina speranza”. La speranza di quella persona, la speranza tua e la speranza della Chiesa. A noi è chiesto questo: di essere, tra le quotidiane rovine del mondo, instancabili costruttori di speranza; di essere luce mentre il sole si oscura; di essere testimoni di compassione mentre attorno regna la distrazione; di essere amanti e attenti nell’indifferenza diffusa. Testimoni di compassione. Noi non potremo mai fare del bene senza passare per la compassione. Al massimo faremo cose buone, ma che non toccano la via cristiana perché non toccano il cuore. Quello che ci fa toccare il cuore è la compassione: ci avviciniamo, sentiamo la compassione e facciamo gesti di tenerezza. Proprio lo stile di Dio: vicinanza, compassione e tenerezza. Questo ci è chiesto oggi.

Di recente mi è tornato in mente quel che ripeteva un Vescovo vicino ai poveri, e povero di spirito lui stesso, don Tonino Bello: «Non possiamo limitarci a sperare, dobbiamo organizzare la speranza». Se la nostra speranza non si traduce in scelte e gesti concreti di attenzione, giustizia, solidarietà, cura della casa comune, le sofferenze dei poveri non potranno essere sollevate, l’economia dello scarto che li costringe a vivere ai margini non potrà essere convertita, le loro attese non potranno rifiorire. A noi, specialmente a noi cristiani, tocca organizzare la speranza – bella questa espressione di Tonino Bello: organizzare la speranza –, tradurla in vita concreta ogni giorno, nei rapporti umani, nell’impegno sociale e politico. A me fa pensare il lavoro che fanno tanti cristiani con le opere di carità, il lavoro dell’Elemosineria apostolica… Che cosa si fa lì? Si organizza la speranza. Non si dà una moneta, no, si organizza la speranza. Questa è una dinamica che oggi ci chiede la Chiesa.

C’è un’immagine della speranza che Gesù ci offre oggi. È semplice e indicativa al tempo stesso: è l’immagine delle foglie dell’albero di fico, che spuntano senza far rumore, segnalando che l’estate è vicina. E queste foglie appaiono, sottolinea Gesù, quando il ramo diventa tenero (cfr Mc 13,28). Fratelli, sorelle, ecco la parola che fa germogliare la speranza nel mondo e solleva il dolore dei poveri: la tenerezza. Compassione che ti porta alla tenerezza. Sta a noi superare la chiusura, la rigidità interiore, che è la tentazione di oggi, dei “restaurazionisti” che vogliono una Chiesa tutta ordinata, tutta rigida: questo non è dello Spirito Santo. E noi dobbiamo superare questo, e far germogliare in questa rigidità la speranza. E sta a noi anche superare la tentazione di occuparci solo dei nostri problemi, per intenerirci dinanzi ai drammi del mondo, per compatire il dolore. Come le foglie dell’albero, siamo chiamati ad assorbire l’inquinamento che ci circonda e a trasformarlo in bene: non serve parlare dei problemi, polemizzare, scandalizzarci – questo lo sappiamo fare tutti –; serve imitare le foglie, che senza dare nell’occhio ogni giorno trasformano l’aria sporca in aria pulita. Gesù ci vuole “convertitori di bene”: persone che, immerse nell’aria pesante che tutti respirano, rispondono al male con il bene (cfr Rm 12,21). Persone che agiscono: spezzano il pane con gli affamati, operano per la giustizia, rialzano i poveri e li restituiscono alla loro dignità, come ha fatto quel samaritano.

È bella, è evangelica, è giovane una Chiesa che esce da sé stessa e, come Gesù, annuncia ai poveri la buona notizia (cfr Lc 4,18). Mi fermo su quell’aggettivo, l’ultimo: è giovane una Chiesa così; la giovinezza di seminare speranza. Questa è una Chiesa profetica, che con la sua presenza dice agli smarriti di cuore e agli scartati del mondo: “Coraggio, il Signore è vicino, anche per te c’è un’estate che spunta nel cuore dell’inverno. Anche dal tuo dolore può risorgere speranza”. Fratelli e sorelle, portiamo questo sguardo di speranza nel mondo. Portiamolo con tenerezza ai poveri, con vicinanza, con compassione, senza giudicarli – noi saremo giudicati –. Perché lì, presso di loro, presso i poveri c’è Gesù; perché lì, in loro, c’è Gesù, che ci attende.

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