venerdì 24 luglio 2015

Il 24 luglio San Charbel: Il "Padre Pio" libanese

Un grande santo venerato molto a MEDJUGORJE

Il 24 luglio si celebra la sua festa liturgica

“Se fosse vivo oggi, catalizzerebbe l’attenzione dei mass media e sarebbe oggetto di studio della Nasa. Verrebbe sottoposto alla Tac come le mummie egizie e il suo Dna susciterebbe il massimo interesse. Si spenderebbero fiumi d’inchiostro e di parole sul mistero che lo circonda e anche i migliori detective impegnati a scoprire segreti del suo essere sarebbero costretti a gettare la spugna”.
Così dice Patrizia Cattaneo, scrittrice e giornalista, riferendosi a un monaco libanese, Charbel Makhlouf, appartenente alla Chiesa cattolico maronita, morto oltre un secolo fa, proclamato santo da Paolo VI nel 1977, la cui festa liturgica si celebra il 24 luglio.
“La esistenza terrena di San Charbel fu costellata di eventi e fenomeni inspiegabili straordinari, fenomeni che hanno continuato e continuano a manifestarsi intorno alla sua tomba”, dice ancora Patrizia Cattaneo. “ E sembra anche che, in questo periodo storico, assai doloroso per il Medio Oriente, tormentato da guerre, attentati, odi, San Charbel abbia intensificato la sua attività taumaturgica, quasi a voler richiamare l’attenzione della gente sui valori spirituali, sulle realtà soprannaturali che gli eventi delle guerre vorrebbero cancellare”.
Patrizia Cattaneo ha scritto diversi libri su San Charbel, ed è quindi una esperta in materia. Ha anche fondato una Associazione culturale legata al suo nome, che ha lo scopo di “promuovere tutto ciò che riguarda la conoscenza del santo libanese”. 
Sinteticamente, chi è san Charbel?
Patrizia Cattaneo: “E’ un grande santo libanese, appartenente alla Chiesa cattolica maronita. E’ vissuto nel nascondimento  più assoluto e non ha lasciato nulla di scritto,  né lettere, né riflessioni e tanto meno un diario spirituale, che ci consenta di sollevare, anche di poco, il velo sul suo rapporto intimo con Dio.  Ma abbondano i “segni” della sua grandezza spirituale. La sua “biografia celeste” è  in continuo fermento.  Il santo vive e opera attivamente in Dio. Si può dire che, da morto, attraverso innumerevoli miracoli, parli moltissimo, e che lo faccia soprattutto in questo nostro tempo”. 
Che cosa si conosce della famiglia di San Charbel e della sua esistenza prima della sua entrata in monastero?
Patrizia Cattaneo: “Il santo è l’ultimo dei cinque figli di Antoun Makhlouf e Brigitta Al-Chidiac. Nacque l’8 maggio 1828, e gli venne dato il nome di Youssef. Nacque in Libano, a Bqaakafra, un villaggio che sorge a 1800 metri sopra la “Valle Santa”, così chiamata perché è il luogo dove si trovano i più antichi insediamenti monastici della regione. Numerosi eremiti abitavano nelle sue grotte, e lo spirito ascetico che si sprigionava da quelle grotte impregnava l’intera valle.
“I genitori di Youssef erano molto pii, in particolare la madre. Il padre lavorava la terra e allevava il bestiame. Nel 1831, l’esercito ottomano lo requisì con il suo asino, per trasportare i raccolti dell’emiro fino al porto di Byblos. Una febbre perniciosa lo stroncò sulla via del ritorno a casa e Youssef aveva solo tre anni, quando rimase orfano del papà.
“Due anni dopo, sua madre, si risposò con un piccolo possidente terriero che divenne sacerdote con il nome religioso di Abdel Ahad. Presso i maroniti, come presso altre comunità di rito orientale, anche uomini coniugati possono diventare sacerdoti ed esercitare il loro ministero. Abdel Ahad divenne il parroco di Bqaakafra, ed era anche il maestro della scuola del villaggio. Youssef fu allievo del “patrigno” sacerdote. Il quale era una persona molto colta e molto pia e fu la prima importante guida spirituale per il ragazzo”.
Quando Youssef decise di abbandonare il mondo per dedicarsi alla vita eremitica?
Patrizia Cattaneo: “A 23 anni. Fin da ragazzino era, per sua natura, incline alla contemplazione e alla solitudine. Si confessava e si comunicava spesso. Pregava di continuo e portava sempre con sé il libro di preghiere. Il suo compito giornaliero era quello di condurre la mucca al pascolo, ma amava isolarsi dai suoi coetanei che pascolavano il bestiame come lui, per dedicare il suo tempo alla preghiera. I suoi compagni lo chiamavano “il santo”. Alla sua mucca diceva:  “Aspetta che finisca di pregare, perché non posso parlare con te e con Dio allo stesso tempo. Lui ha la precedenza!” La sua vocazione fu favorita anche da due zii materni, eremiti nella Valle Santa. La madre di Youssef però, forse per grande affetto,  ostacolava quella inclinazione del figlio. E così, una notte, quando aveva 23 anni, Youssef, seguendo la voce del suo cuore, fuggì di casa ed entrò in noviziato al convento di Maifouq. La madre lo cercò e lo supplicò di tornare a casa, ma il giovane fu irremovibile”.
Quali furono le tappe più importanti della sua vita in  monastero?
Patrizia Cattaneo: “Dopo la sua fuga da casa, affrontò l’anno di noviziato, “anno di prova”, e per la sua nuova vita di religioso prese il nome di Charbel, in onore di un martire antiocheno, morto nel 121 e venerato dalla Chiesa orientale. Charbel, in siriaco, significa “storia di Dio”.
“Nel monastero di Maifouq, Fra Charbel apprese le regole della vita religiosa. Si distingueva dagli altri novizi per obbedienza esemplare. Ma quel monastero non corrispondeva alle sue aspettative di solitudine e silenzio. Chiese ai superiori di essere trasferito in un monastero più isolato e venne mandato nel convento San Marone di Annaya, dell’Ordine Libanese Maronita.
“Nel 1853, dopo i voti solenni, fu inviato all’istituto teologico di Kfifane, per prepararsi al sacerdozio. Qui, per cinque anni, fu allievo di un grande teologo, Nimatullah Al-Hardini, che fu anche un grande santo, elevato alla gloria degli altari nel 2004. Questo straordinario personaggio, che aveva una cultura teologica smisurata, trasmise a Charbel non solo l’amore profondo per la teologia, ma soprattutto l’amore per Dio e per la vita ascetica.
“Completati gli studi e ordinato sacerdote nel 1859, Charbel tornò al monastero di Annaya, dove trascorse 16 anni di vita monastica esemplare, guadagnandosi la fama di santo per le virtù eccelse e la sua leggendaria ubbidienza “più angelica che umana”. Nel 1875 ottenne il permesso di ritirarsi all’eremo dei Santi Pietro e Paolo, annesso al monastero di Annaya, dove trascorse gli anni più intensi della sua comunione con Dio e dove morì il 24 dicembre 1898”.
Nelle varie biografie di questo santo, e anche nei  libri che lei ha scritto, si parla molto di fenomeni carismatici, di prodigi, di miracoli.
Patrizia Cattaneo: “I prodigi iniziarono quando il santo era monaco ad Annaya. Un suo confratello ha dichiarato: “Tutto quello che si legge nelle biografie dei santi è inferiore a ciò che, con i miei occhi, ho visto compiere da padre Charbel”. La gente di ogni confessione religiosa ricorreva a lui per chiedergli di benedire i campi, le case, il bestiame, i malati e i prodigi piovevano abbondanti. Il santo conosceva gli eventi a distanza e aveva il dono di scrutare le coscienze. Il superiore un giorno gli ordinò di benedire la dispensa che scarseggiava di provviste e le giare subito si riempirono di grano e olio. Durante le frequenti invasioni di cavallette, causa di carestia e di morte, solo i campi benedetti dal santo sfuggivano alla devastazione. La sua benedizione scongiurò la morte di interi allevamenti di bachi da seta, che costituivano una fonte primaria di sostentamento per il convento e la popolazione. Sarebbero necessarie pagine per enumerare i prodigi attribuiti a San Charbel quando era ancora in vita.”

Ogni santo eccelle in particolari virtù o pratiche ascetiche: quali erano quella caratteristiche di San Charbel?
Patrizia Cattaneo:  “Difficile scegliere. Il suo impegno nell’ascesi era totale e continuo. Si infliggeva mortificazioni continue,  come il digiuno permanente, le veglie incessanti, il lavoro durante la malattia, le notti al gelo, il rifiuto delle medicine. Si nutriva scarsamente e dormiva pochissimo, ma lavorava alacremente nei campi come un condannato ai lavori forzati. Parlava solo per ubbidienza o per necessità, a bassa voce, senza guardare l’interlocutore, teneva sempre il cappuccio calato sugli occhi e lo sguardo abbassato. Usciva dal monastero solo quando il superiore gli ordinava di visitare i malati o celebrare battesimi e funerali. In assenza del superiore, ubbidiva a chiunque gli impartisse un ordine. Neppure un indigente avrebbe accettato il suo cibo, il suo letto e i suoi vestiti. Ma la sua povertà più eccelsa consisteva nel mascherare la sua ricchezza spirituale. La messa era il fulcro della sua giornata, vi si preparava a lungo e con estrema cura. Pregava incessantemente e restava inginocchiato per ore davanti al tabernacolo. Un giorno un fulmine colpì l’eremo, incendiò la tovaglia dell’altare e gli bruciò l’orlo della veste, ma il santo era talmente immerso nella preghiera che non si accorse di nulla”.
Cosa avvenne dopo la sua morte?
Patrizia Cattaneo: “Il santo spirò la vigilia di Natale del 1898. Il giorno dopo fu sepolto nella fossa comune del monastero. Per alcuni mesi una luce brillante e misteriosa, visibile in tutta la vallata, si sprigionava ogni notte dalla sua tomba. La  corrente elettrica non era ancora arrivata in quei luoghi, e lo spettacolo era impressionante.  La fama di santità di Charbel richiamava molta gente, e i monaci temevano che qualcuno pensasse di trafugare la salma, e così, poco mesi dopo la sepoltura decisero di trasferire il corpo all’interno del convento. Aprendo il sepolcro, scoprirono che quel corpo era ancora intatto e flessibile, come di una persona che stesse dormendo. Un liquido vischioso trasudava dai suoi pori, simile al plasma che esce dalle piaghe di una persona viva, e si scoprì che quel liquido aveva straordinarie proprietà taumaturgiche. Il fenomeno, assolutamente inspiegabile, durò per 79 anni, cioè fino al 1977, anno della canonizzazione.  “Non ho mai visto né letto di  un caso simile in nessun libro di medicina”,  disse il dottor Georges Chokrallah, che fu un testimone al processo di beatificazione di Charbel. “Spinto da curiosità scientifica, ho cercato di scoprire il segreto di quel corpo e di quel liquido. Dopo averli esaminati per circa 17 anni, due o tre volte l’anno, la mia opinione personale, basata sullo studio e sull’esperienza, è che fossero imbevuti di una misteriosa  forza soprannaturale”».
Perché il 1950 fu definito “anno charbeliano”?
Patrizia Cattaneo: “Perché in quell’anno i fenomeni soprannaturali riguardanti Padre Charbel conobbero una autentica esplosione. Il 1950 era, per la Chiesa, l’Anno Santo. E per quell’occasione si decise di esporre la salma dell’eremita alla venerazione dei fedeli.  La tomba fu aperta alla presenza di un comitato ufficiale e la salma, ancora morbida e incorrotta. Da quel momento i miracoli si moltiplicano a dismisura e in pochi mesi il convento ne registrò oltre duemila.
“Quell’anno un sacerdote, giunto in pellegrinaggio ad Annaya, scattò una foto di gruppo davanti all’eremo. Quando sviluppo il negativo scoprì che su quella foto c’era una persona che non era presente al momento dello scatto: si trattava dell’immagine del santo, come venne identificata da chi lo aveva conosciuto. Un’immagine preziosa perché padre Charbel non era mai stato fotografato da nessuno quando era in vita. E da quella immagine “miracolosa” è stato poi ricavato il ritratto ufficiale ora conosciuto”.
Lei ha conosciuto persone “miracolate” da San Charbel?
Patrizia Cattaneo:  “Diverse.  Uno dei casi più sconcertanti riguarda una signora libanese che ora ha 74 anni. Si chiama Nohad Al-Chami. E’ illetterata, ma ricca di fede. Il 9 gennaio 1993 fu colpita da ictus cerebrale. Una doppia occlusione della carotide, le causò la paralisi della parte sinistra del corpo. Rimase nove giorni in terapia intensiva all’ospedale di Byblos, destando serie preoccupazioni, perché non reagiva alle cure. Un intervento chirurgico era stato momentaneamente escluso perché considerato troppo rischioso. Nel frattempo venne rimandata a casa.  Aveva gravi difficoltà di parola,  di movimenti e poteva nutrirsi solo con una cannuccia. I figli iniziarono a pregare san Charbel. Frizionarono il collo della loro madre con un impasto di terra e olio benedetto provenienti dalla tomba del santo.
“La sera del 22 gennaio, Nohad sognò due monaci immersi in una grande luce che si avvicinavano al suo letto. Uno di loro le disse: “Sono san Charbel e sono qui per operarti”.  Nohad si spaventò, ma il santo aveva già iniziato l’intervento. Mentre le sue dita le incidevano la gola, la donna provò un dolore lancinante. Infine san Marone, l’altro monaco, le sistemò il guanciale dietro la schiena e l’aiutò a sedersi sul letto, quindi le porse un bicchiere d’acqua, invitandola a bere senza la cannuccia. Nohad esitava, ma san Marone le disse: “Ti abbiamo operato. Ora puoi alzarti, bere e camminare”. La donna si destò di soprassalto e si trovò seduta sul letto, come nel sogno.
“Si alzò da sola senza difficoltà e si diresse verso il bagno. Guardandosi allo specchio vide due tagli di dodici centimetri ai lati del collo, chiusi da alcuni punti di sutura, da cui fuoriusciva ancora il filo chirurgico. La gola e i vestiti erano imbrattati di sangue. Andò subito a svegliare il marito, che balzò dal letto spaventato. Anche le difficoltà di parola erano scomparse, così Nohad potè raccontare l’accaduto parlando normalmente. Al mattino, accompagnata dal marito si recò al monastero di Annaya per ringraziare san Charbel e riferire i fatti al superiore. I medici, poi, certificarono la sua guarigione inspiegabile.
“La notizia del miracolo si diffuse in un lampo, e la gente cominciò a riversarsi a casa sua. Temendo per la sua salute, il medico e il parroco le consigliarono di trasferirsi temporaneamente da suo figlio, ma san Charbel le apparve in sogno e l’ammonì: “Ti ho lasciato le cicatrici per volere di Dio, perché tutti le possano vedere, soprattutto quelli che si sono allontanati da Dio e dalla Chiesa, affinché tornino alla fede. Ti chiedo di recarti all’eremo ogni 22 del mese, nella ricorrenza della tua guarigione, per partecipare alla messa. Là io sono sempre presente”. Da allora, il 22 del mese, Nohad si reca col marito all’eremo di Annaya, per partecipare alle funzioni liturgiche. La gente può vedere sul suo collo le cicatrici arrossate e sanguinanti. Sono migliaia i pellegrini di ogni confessione religiosa, provenienti da ogni parte del Libano e del mondo, che partecipano all’evento e sono innumerevoli le conversioni prodotte dalla sua testimonianza.
Il fatto, clamorosissimo, è stato oggetto di studio da parte di diversi medici. Nel 2002 un’ecografia carotidea ha rivelato che la signora Nohad ha subìto un reale intervento chirurgico bilaterale, che le sue arterie sono in buono stato e che l’ictus non ha danneggiato il cervello.”
Fonte:http://www.zenit.org/it/articles/san-charbel-il-padre-pio-libanese-seconda-parte

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